Il suo giardino era uno
dei più belli che avessi mai odorato. Si faceva toccare con gli occhi, e questo
era tutto.
Lei non aveva fatto
nulla per dargli una forma particolare: aveva semplicemente lasciato che
crescesse, seguendo il proprio flusso interiore, e le fasi lunari.
A volte si era chiesta,
questo è vero, se fosse il caso di dare un nome alle creature così delicate e
resistenti che sentiva muoversi notte dopo notte, quando il silenzio è più
forte, e lascia spazio al suono della vita sotterranea.
Ma alla fine aveva
compreso intuitivamente che no, non era quello il caso; il suo giardino sarebbe
diventato in quel modo una serra, ovvero qualcosa di un’altra natura, diversa
dalla sua.
La sua n(N)atura era fresca e selvatica, e
racchiudeva in potenza tutte le maiuscole interiori che faticavano a rendersi
palesi a se stesse. Chi riusciva a sbirciare dalle vetrate in penombra del suo
giardino, le intravedeva, come piccoli lampi che preannunciano un temporale ancora
incerto.
Il giardino era
impreziosito dalla vita sontuosa di un essere dall’anima morbida e profonda
come le mille leghe dei mari leggendari. Il suo sguardo annaffiava ogni angolo
vivente del giardino, donandogli fremiti di gioia.
Li chiamano gatti, gli esseri della sua specie
terrena. Ma io e lei sappiamo che
qualsiasi nome è fiato sprecato, per la loro altezza anima-le.
Io e lei ci siamo riconosciute, e ascoltando le sue note interiori, ho avuto accesso
al viaggio nel suo giardino.
Uno dei più belli che
avessi mai ascoltato.
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